L'architettura moderna, quella che ha segnato almeno i primi cinquant'anni del '900, ha usato il bianco come una bandiera.
Il bianco è stato come il collage per i cubisti, come l'oggetto industriale per l'arte pop, un mezzo per parlarsi da lontano, la lingua con la quale si costruiva una comunità internazionale intorno ad una ricerca comune.
Emanuele Rossini lo eredita da architetto e lo usa da artista. I suoi ultimi lavori sembrano colati in un latte bianco aspro, in una nebbia lunare che, come è destino dell'arte, inquieta per avvenuta identificazione.
Per paradosso chiamiamo l'epoca in cui viviamo "globale", essendosi rotto ogni legame fra le parti, sconquassata la pangea sociale e sentimentale che la storia e le utopie di quasi due secoli avevano costruito.
Il bianco che Emanuele Rossini eredita dalla tradizione italiana ed europea - dall'architettura moderna classica o dalle ricerche formali dell'arte degli anni '50 e '60 - non ha l'ambizione stupida di restare ciò che era né diventa lo strumento per aderire al crepuscolo del linguaggio non gloriosamente internazionale, ma internazionalizzato che rende l'arte qualunque, banale, tragicamente senza contesto.
Il velo bianco che ricopre tutti i suoi lavori recenti, sotto il quale dilagano centinaia di piccole figure umane come acari, come parassiti tristi, mantiene la sua aspirazione universale più autentica rivelando la frattura con una storia "terrestre", direbbe Edgard Morin, che sta tragicamente tramontando ma nella vertigine della sua risacca riporta a riva l'eterno bisogno di felicità.
Marta Francocci
Modern architecture of the first 50 years of the 19th century has used white as his standard.
White has been used by Cubism as collage art, by Pop art as industrial object; It has been used as a medium to communicate from long distances, as a language utilize to build an international community around a cooperative study.
Emanuele Rossini inherits the White from Italian and European tradition, from the modern architecture, and also from the formal researches of the 50’s and 60’s years but he doesn’t have the stupid ambition to continue what it was in the past or to use it as an instrument to adhere to an internationalized language which convert art into something banal, dramatically without a meaning.
Marta Francocci
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